Lettere dal Nord-Est

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Lontano, Ludovico Einaudi

Oceano... mare

Oceano… mare

Carissima L***,

 

convivo ormai da giorni con una tristezza inguaribile, che mi affanna.

Un tempo, ero capace di non far trasparire nulla del mio mondo interiore, ma dopo la depressione, o forse a causa dell’età, sono diventata più fragile, facile alla commozione, e nascondermi è ormai più complicato: in pochi sapevano riconoscere nei protratti silenzi, nelle mie assenze temporanee dal mondo, nel mio disinteresse per le cose quotidiane, nel mio agire scostante, un dolore profondo.

E così, quella rigidità sostenuta, quello sguardo gelido e impenetrabile, hanno lasciato il posto a una visibile voglia di estraniarmi.

Forse proprio l’inerzia di questo agosto, questo mese morto, insignificante per il mio intendere la vita, mi ha incupito ulteriormente, e la distanza che ci separa è diventata insopportabile, la tua assenza irrimediabile. Odio l’estate, odio il mare, che ti rende ancora più lontana e quasi irraggiungibile.

Così, penso che vorrei ancora aspettarti, in quegli afosi pomeriggi cagliaritani, e sederci ancora a commentare i miei versi, e ancora te li spiegherei, lasciandoti entrare attraverso gli spazi bianchi, tra i segni delle lettere e della punteggiatura, e all’ombra della mia inquietudine, mostrarmi ancora terribile e disarmata al tempo stesso.

Vorrei ancora lasciare fumare le tazze di tè, mentre conversiamo delle nostre consuetudini, o dell’ultima lettura, dell’ultimo film visto, dell’ultimo dolore o dell’ultima gioia vissuta. E tu, ti abbandonerai ancora con tenerezza a parole di ammirazione per la mia voglia di donarmi, per il mio amore totalizzante e irragionevole verso il prossimo, e mi rimprovererai ancora per la troppa fiducia che ripongo nell’altro, cercherai ancora di proteggermi dal mio entusiasmo, ma ancora, finirò per piangere sul tuo cruscotto.

Ancora, ancora amica mia, vorrei sentire suonare il citofono e la tua voce che mi chiama ancora “scendi, bella bionda” e fare le scale, mentre mi aspetti nella tua auto, e ti giustificherai ancora, mortificata, del tuo ennesimo ritardo. Non serviranno le mie parole, basterà ancora il mio sguardo a condannarti e assolverti di nuovo. E raggiunta la meta, toglierai ancora le scarpe da ginnastica e indosserai il tuo “tacco dodici”, dicendo “non è possibile guidare con queste scarpe”, mentre darei un ultimo sguardo al trucco, prima di scendere dalla macchina.

E ancora rideremo dei ragazzini che s’affollando, sbavando, al lato del marciapiede, per vederci meglio passare, e sentenzieremo che “a ripensarci, non li vorrei riavere sedici anni”. Ancora vorrei sostare fino alle tre di notte sotto casa, per confessarci le nostre debolezze, la nostra inadeguatezza, quell’indigeribile impotenza di fronte alla sofferenza dell’altra. Ancora, ancora, ancora.

E infine salutarci ancora, con quell’abbraccio deciso e doloroso, dove nessuna ha il coraggio, la forza, di separarsi. E poi dividerci, pensando che sarà soltanto un altro ancora.

 

Tua Stefi

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