“E subito riprende
Il viaggio
Come
Dopo il naufragio
Un superstite
Lupo di mare.”

Giuseppe Ungaretti, Allegria di naufragi


“Lo scrittore scrive per sé e per altri se stessi”

Leonardo Sciascia

Le altre persone trovano piuttosto strano che io mi esponga e mi lasci leggere senza troppi fronzoli, nella trasparenza più loquace, nella fertilità dell’intimo mio interiore più profondo. E allo stesso modo sorridono della mia curiosità verso le vite altre, o meglio verso la vita come semplice entità, l’esistente fine a stesso: non è detto che gli altri abbiamo qualcosa di veramente interessante da dire, mi compiaccio nello scoprire la banalità delle cose. O almeno così è sempre stato e lo è ancora, salvo per quella parentesi chiamata depressione che ti annienta e ti inebetisce fino a non avere più piacere per nessuna cosa.

E del resto tra i miei principi la parola privacy non esiste, per me viene sempre prima la condivisione, l’ascolto, la parola, la chiarezza, la spontaneità. Trovo che questa privacy non è che un valore tipicamente borghese, che ora riteniamo un diritto naturale inalienabile, ma che invece è un’acquisizione liberale storicamente affermatasi quando Stato e società civile hanno iniziato a differenziarsi. Non saprei cosa nascondere del resto, m’impongo ai vostri occhi alla luce del sole.

La scrittura ha l’incisiva funzione di riportare nero su bianco ciò che prima era solo pensiero, confuso e disordinato, lasciando che si pieghi alla razionalità e lucidità del linguaggio, della punteggiatura, della sintassi: ciò che era oscuro diventa allora subito chiaro.

Mi piace immaginare che queste parole rappresentino il percorso di un ingenuo Pollicino che cerca la strada di casa, lasciando soltanto molliche di pane; gli uccelli hanno mangiato le briciole in certi tratti, ed il percorso si è fatto più tortuoso, ma in fondo, tra i rovi e le chiome di alberi contorti dai venti, c’è una bambina, cresciuta troppo in fretta e con troppa coscienza della responsabilità, con quel desiderio di accontentare tutto e tutti per essere infine semplicemente amata, perché forse mai si è sentita amata abbastanza. Tutto è iniziato lì, da quelle insicurezze abbandonate al silenzio, compresse al punto da esplodere in un bisogno ossessivo d’attenzione.

Eppure paradossalmente, è proprio quest’ultima che ho mancato di darmi, troppo convinta che la Ragione dei numeri e delle cifre, dei dosaggi e dei ripetuti referti medici, sarebbe bastata: ma ancora non avevo colto la differenza tra curarsi e prendersi cura di sé.

“Un medico, diversamente da un politico o da un attore, viene giudicato soltanto dal suo paziente e dai suoi più prossimi colleghi, cioè a porte chiuse, da uomo a uomo.”

M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere

A volte penso che il medico non si accorga di quanto il cambiare farmaco, per un malato cronico che con la chimica ha stretto un patto di sangue, possa essere disorientante. Per il terapeuta è un’altra possibilità tra le poche di cui ha disponibilità, e la percepisce in maniera ottimistica ed entusiastica perché può fare ancora qualcosa. Ma per te che sei malato cambiare farmaco è anche cambiare stile di vita, riequilibrare il tempo e lo spazio all’interno di una nuova cornice; emotivamente è una sconfitta per tutto quello che è venuto prima, che si presenta al tuo cospetto come perdente, ed un nuovo istintivo investimento nella speranza, e investire emotivamente nell’ignoto si sa, a volte è deleterio.

Tutta quella routine, quei rituali che scandivano la tua quotidianità ad un certo punto terminano, lasciando un grande vuoto che riempi di paura, folle e funesta. E poi ne arrivano altri e la vita si riempie di nuovo e così via, finché la scienza non avrà più niente in serbo per te, e ti resterà soltanto la solitudine dell’impotenza, del rifiuto, dell’abbandono.

Quando anche a me fu tolto il primo farmaco sentii un’angoscia svuotarmi dentro come avevo fatto con il ripiano del frigorifero. La stessa inquietante sensazione che per molto tempo accompagnava il mio uscire dal Centro, perché a quel punto, richiuse le porte scorrevoli alle mie spalle, io e la malattia eravamo faccia a faccia: il Centro per noi pazienti è un ambiente protetto, una specie di campana di vetro dove par quasi che la malattia si fermi e ci aspetti all’uscita. Per questo continuo a pormi il problema che i medici non conoscono la nostra quotidianità, sfalsando i dati e decidendo senza una reale conoscenza del convivere con una patologia del genere. A volte ho pensato che trovavo ridicolo che mi si giudicasse percorrendo scalza un paio di metri, ma che sarebbe stato utile vedere come faccio la spesa, come mi alzo da tavola e come scendo le scale di casa, ed in tutte quelle altre strategie giornaliere con cui vinco la mia disabilità, che se pur minima, c’è. Iniziai a ritenere che l’unica vera, accesa speranza fosse un dialogo profondo con la persona-medico, perché forse mi ero stancata di fare il paziente, e preferivo essere anch’io prima di tutto una persona.

I ruoli non mi sono mai piaciuti, del resto il senso dell’autorità non mi è stato mai inculcato, avendo avuto un’educazione atea, senza alcun timore reverenziale di stampo cattolico, e per giunta marxista: per me il medico non ha una stellina in più sulla mostrina, rispetto all’ultimo degli ausiliari delle pulizie. E non dimentico mai di essere marxista, anche quando entro in ambulatorio, del resto “da ciascuno secondo le sue capacità e a ciascuno secondo i suoi bisogni”, avrebbe detto Karl Marx. Io non cercavo un salvatore, cercavo un interlocutore e per molto tempo mi parve di averlo trovato.

“Vi giuro, signori, che l’essere troppo consapevoli è una malattia, un’autentica, assoluta malattia.”

F. Dostoevskij

La morte sopraggiunge nella tua vita come il tonfo di una porta che sbatte per via della corrente. Non puoi che trasalire, per poi riprendere il da farsi, accettando l’inevitabile, l’ovvio.

Finché la morte sorprende il tuo compagno di stanza, in qualche freddo reparto ospedaliero, finché a smettere di battere è il cuore dell’anziano signore che si perdeva ogni notte nel corridoio, quando la morte è solo un letto sfatto a cui presto le infermiere cambieranno le lenzuola, puoi ancora ignorarla. Ma io avevo bevuto nel suo bicchiere, suonato il suo campanello, composto il suo numero di telefono, riso e chiacchierato con lei per ore della fallibilità della Scienza, dell’assurdità della Sanità pubblica, degli esami universitari che tanto premono la vita di noi studenti.

La morte allora pretendeva di entrare prepotentemente nei miei pensieri, la disperazione aveva il suono del suo rantolare nelle ultime ore prima della dipartita.

Non sono più stata capace di essere la fredda e razionale Stefania che guardava i lividi sulla pelle come semplici marchi di fabbrica; le vene, continuamente sollecitate, iniziarono presto ad indurirsi ed a diventare insofferenti, ed anch’io iniziai a sentirmi così, indurita ed insofferente. Di tutte le pacche sulle spalle, i buffetti e le parole d’incoraggiamento di questi anni non mi è rimasto niente, se non una frase buttata lì a riempire qualche attesa, quel “Ti sarai sicuramente portata qualcosa da leggere!” che avrebbe constatato una mia caratteristica, una peculiarità caratteriale, l’amore per la lettura appunto, che il mio medico sottolineava con una certa tenerezza. Ed allora non ero solo un paziente, era la mia persona ad invadere quegli spazi.

Per molto tempo il mio vivere fu incancrenito, dilaniato da quella sua ultima, lucida scelta, quel suo “Mamma, portami a casa”, che mi appariva così terribilmente definitivo. Quale coraggio, quale rassegnazione, quale sprezzo di ogni accanimento aveva sentenziato l’irrevocabile condanna. Io ne ero tremendamente spaventata, forse ancor di più dall’immobilismo e dall’indolenza della Scienza, la scarsa attenzione nella minuzia, i piccoli gesti come ultimi slanci affettivi mancati, un tragico senso di solitudine di fronte alla fine, ed un sublime moto di rivolta che rigettava un’ingiustizia.

Così la Scienza falliva miseramente davanti ai miei occhi, “il Re è nudo” pensai, spoglio dell’arroganza con cui si palesa nei corridoi e nelle sale dei reparti, “Tutto qui?” mi ripetevo. Pensai allora che mi restava un gran senso di umanità, un’umanità vivida, vitale, e dovevo puntare tutto su questo, allontanandomi fatalmente dai meccanismi della Medicina occidentale, che mai come allora si erano dimostrati soltanto un’assurda pantomima.

“Dobbiamo cominciare a curare il paziente come curiamo la malattia.”

H. “Patch” Adams

Neppure i più meravigliosi ed inaspettati successi tolgono quel retrogusto amaro delle cose, quando una tenia feroce ti consuma nelle viscere implacabilmente: la paura del fallimento è la cancrena dell’agire, silenziosamente toglie il gusto alla soddisfazione, al trionfo, ad ogni esito più o meno fruttuoso. Fallire per me, significava perdere la stima e l’affetto degli altri con l’inesorabile conseguenza che avrei subito una condanna all’abbandono.

In un periodo storico in cui la precarietà costringe a vivere senza prospettiva, la tua laurea è un pezzo di carta appeso al muro e un titolo con cui ci si sbeffeggia tra colleghi, umiliati dalla mediocrità della docenza e sviliti nell’intelligenza, quando in tutto ciò che ti circonda non c’è un solo appiglio a cui strappare un po’ di sana, per quanto temporanea, semplice, banale felicità, il fallimento non è tanto una possibilità, quanto una certezza.

Così, per evitare il peggio, finivo lentamente per evitare e basta, ovvero per non agire: rinunciavo pian piano a qualsiasi attività che prevedesse degli obiettivi, mentre intorno le persone mi invitavano a non fare, per riposarmi dicevano: mai dire ad un depresso di rinunciare a qualcosa, non aspetta che la legittimazione degli altri al proprio immobilismo!

L’apatia divenne la compagna indolente della mia giornata, aspettavo soltanto d’addormentarmi per non sentire i sensi di colpa per quanto non ero riuscita a fare, lasciavo trascorrere il tempo in attesa che l’angoscia passasse, ma questa invece aumentava e non c’era più spazio per nessun’altra cosa. Progressivamente iniziai ad eliminare pezzi della mia vita, fino ad arrivare a non mangiare più. Non capivo cosa mi stesse accadendo esattamente, solo molto più tardi ebbi la possibilità di dare un nome a quel dolore così corrosivo e silente: lo psichiatra lo scrisse mesi dopo a chiare lettere nel certificato, la mia diagnosi era “depressione maggiore”.

In effetti, ne avevo tutti i sintomi: umore depresso, diminuzione dell’interesse o piacere verso tutte le cose, inappetenza e perdita di peso, insonnia, faticabilità ed astenia prolungate, forte sentimento di colpa e scarsa autostima, difficoltà di concentrazione e di prendere decisioni. Mancava soltanto il tentativo di suicidio, pensiero che non mi balenò, per fortuna, mai in mente, ma certamente ci doveva essere qualcosa di pericolosamente autolesionistico nel mio digiuno.

La risposta più immediata della Medicina fu una mezza pastiglia “ed un calcio in culo”, come mi lamentavo io allora, in preda ai miei episodi psicotici e la vaga sensazione dell’assoluta incapacità del referente di occuparsi del mio stato depressivo. Potei allora affermare senza ombra di dubbio che Adams, il famoso medico diventato noto per una di quelle semplicistiche e banalizzanti pellicole hollywoodiane, ha detto la più grande verità quando ha condannato la prassi per la quale si finisce per curare la malattia, ma non la persona. Sedavo il mio malessere goccia a goccia, quando sarebbe bastato un “come stai?” gratuito, ripetuto nel tempo, essere cercata il tanto giusto per non sentirmi ancora una volta sola, mentre un male sconosciuto mi impediva di reagire.

Negli ultimi sprazzi di lucidità, con molta sofferenza interiore e travaglio umano, iniziai ad elemosinare attenzione e aiuto dagli specialisti più adeguati alla mia personale emergenza: psicologo e psichiatra si rivelarono nel tempo le figure principali del mio percorso terapeutico, ma il soggetto protagonista ero io, non più una malattia, una cartella clinica, un referto, gli esiti delle ennesime analisi del sangue, ero io nella mia interezza e complessità. Questo ribaltarsi della prospettiva fu il primo passo per uscire dalla depressione e non fu certo senza conseguenze per la nuova persona che si andava costruendo.

È stato un lungo cammino dove ho dovuto mettere in discussione molte mie convinzioni e molte altre pseudo verità propinate dalla società e dall’ideologia che la domina, introiettate nelle coscienze di noi tutti come indiscutibili.

“Curare a volte, alleviare spesso, confortare sempre.”

E. Trudeau

Come ogni sardo ho un rapporto ambivalente con il mare: da una parte è una presenza costante ed imprescindibile del nostro essere, è il confine, ma anche la speranza, l’incognita certo, ma anche la possibilità di intraprendere nuove traiettorie oltre quella distesa amorfa d’acqua; il mare è al tempo stesso la pena inflittaci che guardiamo con sospetto e terrore, e l’affascinante, oscuro incresparsi dell’ignoto. Così intendo io la vita, di cui certo il mare ne è pienamente metafora.

Un continuo perpetrarsi di maree, quell’aggredire delle onde sulle coste, trascinando via la sabbia e modellando gli scogli, è lì che ulula e che chiama, per poi respingerti, relitto, rifiuto della terra. In tutto questo io avevo intrapreso il mio viaggio, ma qualcosa deve essere andato storto perché ad un certo punto persi la rotta ed iniziai a vagare su un galeone di ammutinati, mentre una tempesta, non so bene quale, né quale vento o quale onda, non lasciava altra sorte che quella del naufragio.

È così che ho chiamato la mia depressione: il naufragio. Mi pareva di affondare senz’appiglio, dimenandomi all’inizio, ma poi, sempre più inerte, finivo per scivolare giù senz’altra reazione che quella mano tesa in cerca d’aiuto. Quella mano fu per un po’ di tempo l’inutile prolungamento con cui chiamavo la salvezza; parve un tempo infinito, doloroso e pallido.

Mi ritrovarono sulla riva inerme, mentre la risacca continuava a consumare gli ultimi sussulti di me. Da quella sabbia copiosa e calda, ricominciai ad alzarmi e a camminare. La depressione ti annienta, ti devasta, ti priva della personalità con cui avevi affrontato la vita fino ad allora, esattamente respinge ogni volontà. Per riprendere il tuo viaggio devi allora ricostruirti da capo e per farlo devi cominciare dalle piccole, infinitesimali cose quotidiane.

Ricominciavo mettendomi al centro, nucleo ed origine di ogni scelta, dovevo volermi bene prima di tutto, cercare il piacere delle cose, e quindi fondamentalmente piacermi. Iniziai a passare il tempo curando la mia persona con tutte quelle frivolezze che fino ad allora avevo ignorato, tagliai i capelli, mi dedicai più al trucco, alla manicure e cose di questo tipo, banalità, stupidaggini che riguardano per lo più gli aspetti più insignificanti del quotidiano. Eppure pareva che la cosa funzionasse, perché quel tempo che rubavo per me stessa, restituiva alla vita una dimensione più semplice e quindi più leggera.

Imparai allora che dovevo dedicarmi di più ai piaceri della vita, a cominciare dal mangiare per esempio, cosa che avevo relegato a semplice bisogno fisiologico: cucinare, questo è il modo migliore per ritrovare gusto in quella mescolanza di odori e sapori che è il cibarsi. Utilizzai le mie facoltà intellettive e creative per dare un nuovo gusto alla vita. E questo avvenne.

E così continuò per tutte le altre cose, il piacere dello stare con gli altri e donarsi, rendersi utili, scrivere e leggere, ascoltare musica e seguire concerti. Insomma ritrovavo la mia dimensione e i neuroni ricominciarono la loro frenetica attività.

L’università, con i conseguenti esami di rito, l’ho ormai accettata come temporaneo effetto collaterale del passaggio evolutivo che sto vivendo: non più solo figlio, ma nemmeno genitore, il limbo che oggi vive la mia generazione, aggravata dalla crisi economica contingente.

Rientrava nella mia nuova prospettiva di vita la scelta di iniziare un’attività sportiva e quella di possedere un gatto. L’arrivo di Nora, il nome che abbiamo dato alla nostra nuova coinquilina, ha rappresentato per me un nuovo modo di approcciarmi affettivamente, una dimensione emozionale diversa e semplice, fatta di gesti materiali, assai diversa dalla complessità delle relazioni umane.

Veniva fuori una nuova Stefania: nel pieno delle mie facoltà mentali rimisi in discussione, passo per passo, il mio modo di affrontare la vita, la malattia e la Medicina, il rapporto con gli altri e le mie ossessioni: cercai prima di tutto di lavorare sulla mia “sindrome del supereroe”, pensai bene di riporre il mantello nell’armadio, poiché evidentemente salvare il mondo mi era diventato un “tantino” troppo pesante.

“A mano a mano che in medicina è venuto crescendo il peso della tecnologia, si è delineato un crescente interesse per l’inserimento della letteratura, delle arti e del sapere umanistico in genere nella formazione dei nuovi medici. La tecnologia minaccia di oscurare l’importanza del rapporto medico-paziente e la considerazione del malato come persona, con il risultato che, mentre l’efficacia dell’atto medico aumenta, non aumenta parallelamente la soddisfazione dei pazienti.”

V. Cagli, Malattie come racconti

 

Rimaneva un conto in sospeso con la Medicina.

Per placare la mia insoddisfazione e rabbia verso alcuni meccanismi del quotidiano applicarsi dei principi della scienza medica, le frasi più ripetute furono “è solo il tuo medico!”, “sono medici, che ci vuoi fare!”, “i soliti medici!”. Questa rassegnazione, questa accettazione passiva che veniva attraversata da una certa deminutio del ruolo del medico nella società, del compito professionale di vera e propria missione, mi arrecava non poco fastidio. Questi certo, erano dei bravi ed ubbidienti pazienti, mentre io, in un certo qual modo, davo fastidio con le mie questioni di principio, ma al posto dei miei terapeuti mi sentirei in qualche modo sminuito, offeso. Io ponevo in essere una serie di problematiche importanti, e lo facevo per l’enorme considerazione che nutrivo verso la Medicina, una visione alta del ruolo e del servizio che è insito in questa professione. Partivo da una concezione per la quale il medico non è mero esecutore di protocolli, piuttosto un intellettuale che attraverso il suo operato è portatore di una certa visione della vita, un’ideologia, una filosofia. La mia prospettiva nasceva dal ruolo attivo di ogni uomo nella società, che contrastava con una reale burocratizzazione della professione medica.

Tutto questo mi risultava inaccettabile, proprio per quel gran senso umanista che mi spingeva verso una concezione alta della Medicina e del mio medico, che ritenevo in grado di supportare la complessità del problema che ponevo. Per quanto m’intestardirsi ad indicare la luna, gli altri continuavano a guardare il dito.

Scelsi allora, la via che mi era più congeniale, cercai di rispondere ai miei mille quesiti con l’unico modo che conoscevo: l’approfondimento, lo studio, l’analisi, la conoscenza, il sapere. Iniziai quindi ad interessarmi alla problematica del rapporto medico-paziente, inserendo nella mia biblioteca domestica numerosi volumi sull’argomento, sulla critica all’approccio occidentale, sulla deriva della Medicina cosiddetta tecnologica, scoprendo un vasto filone che si autodefinisce “Umanesimo della Medicina” che trovavo molto vicino alla mia idea del “curare”.

Questo non aveva a che fare con i miei medici nello specifico, non si trattava di una questione prettamente personale, piuttosto di sistema. Del resto il mio amore verso le persone che hanno svolto in questi anni il loro ruolo di terapeuti è sempre stato testimoniato materialmente dalle foto appese sopra la mia scrivania, quel mio sorridere dei loro piccoli errori perché avevo raggiunto un grado confidenziale tale, che mi apparivano nella loro irrinunciabile umanità. Ma questo non mi bastava, così mi resi presto conto che la maggior parte dei medici che ho incontrato nella mia vita di paziente non hanno alcun interesse verso il problema del rapporto con i loro assistiti; per lo più non sanno comunicare, le diagnosi si spiattellano senza troppa sensibilità, il dolore è una costante a cui pensano di non poter rinunciare, “l’etica della distanza”, tanto sbandierata nel mondo accademico e nell’esperienza dei loro maestri che li hanno preceduti nella professione, si è rivelata più volte ai miei occhi deleteria per il paziente e frustrante per il medico, che sfugge alla propria insicurezza ed emotività con uno stratagemma per lo più inefficace.

La maggior parte dei libri che parlano dell’argomento sono scritti da medici per i medici, perché in realtà a soffrire di più di questa disumanizzazione della Medicina sono proprio loro, come si evince approfondendo la tematica del burn-out, ovvero dell’esaurimento.

Ho letto le pagine più belle, sempre sulla questione, studiando il pensiero geniale e rivoluzionario di Patch Adams, purtroppo decisamente banalizzato, ridotto ad un clown per bambini, ed invece è un grande intellettuale che, a partire da una critica socio-politica, innesta un nuovo modo d’intendere il ruolo del terapeuta; come scrive Matthew A. Budd, professore di Medicina ad Harvard, “subito dopo averlo incontrato, mi resi conto che questo clown era mortalmente serio”.

Ad oggi continuo i miei studi, concentrandomi sui saggi di Vito Cagli. La mia idea è quella di scrivere a tal proposito, considerata l’inesistenza di pubblicazioni mirate da parte dei pazienti.

“La Medicina dei giorni nostri è molto spesso ingiusta perché tende ad abbandonare coloro che hanno più bisogno di aiuto. (…) La Medicina spesso “non si prende cura” del paziente quando non può più “guarire”; in tal modo è specchio della Società utilitaristica ed egoistica in cui vive.”

S. Garattini

Ma lo studio teorico non mi bastava, approfondivo attraverso le numerose esperienze di cui ero ascoltatrice privilegiata proprio al Centro. A questo aggiungevo interviste ai miei amici medici, entravo nella quotidianità della pratica medica con l’occhio e l’orecchio dell’analizzatore. In più, potevo attingere a quanto avevo vissuto in prima persona.

Per quanto gli argomenti in discussione agli incontri con altri giovani malati fossero diversificati e tendenti a porre più che altro l’accento sulle proprie problematiche, questi spesso si concentravano sul loro rapporto con i medici e gli infermieri. Non si trattava di pettegolezzo, piuttosto di curiosità in cerca di un’intimità che mancava, c’era un affetto profondo che li legava al loro terapeuta, spesso un vero abbandono fideistico per l’immensa fiducia che il malato aveva bisogno di donare. Sentirli parlare m’infondeva una grande dolcezza, ma io preferivo tenermi fuori da certi discorsi, la cosa mi addolorava ancora molto.

È che si crea uno strano rapporto tra te e il tuo medico, quando la cronicità della malattia ti costringe ad una frequentazione assidua, ad un livello d’intimità molto alto; il paziente parte da una condizione d’inferiorità che è quella del bisogno, senti che qualcuno deve prendersi cura di te, come se tornassi ad uno stato infantile di dipendenza, ed allora il medico assume, a livello per lo più inconscio, una funzione genitoriale. Lo psichiatra ad esempio mi spiegò, che l’assenza del mio medico nelle fasi più aggressive della depressione fu avvertita da me come un abbandono, e l’esempio fu quello del neonato che viene strappato dal seno materno: per quanto gli si pongano delle alternative, il bambino continuerà ad avere un grande senso d’angoscia, rifiutandole. Questo aspetto è sottolineato anche nel libro di C. Cazzullo e F. Poterzio, “Paziente e Medico: fenomenologia e prassi della relazione terapeutica”: “la posizione di particolare asimmetria che si verifica nelle prime fasi della relazione medico-paziente produce in quest’ultimo una condizione di dipendenza nei riguardi del medico: il malato deve, infatti, subire degli esami clinici, sottoporsi a una terapia, sottostare a un intervento. Questa posizione può richiamare situazioni relazionali antiche, inerenti ai primi rapporti con i genitori o con altre figure significative, riproducendo del materiale affettivo ambivalente e risvegliando vecchi conflitti rimossi. Si riscontra facilmente, allora, la riedizione – in forma più matura – di istanze affettive di tipo infantile nel paziente, che chiede al medico interesse, rassicurazione, protezione, disponibilità perlomeno nell’accettazione dell’ascolto e delle manifestazioni di comprensione reciproca.”

Per quanto io fossi uscita dalla sudditanza inconscia verso il terapeuta, il forte dolore della perdita perseverava. Leggevo tra le righe dei miei compagni di sventura, un bisogno estremo di un rapporto che andasse oltre la visita ambulatoriale, ma si trattava di un rapporto autentico, non minato dall’apparente rigidità dei ruoli, e soprattutto caratterizzato dalla reciprocità.

Il paziente, soprattutto il malato di sclerosi multipla, ha bisogno che il medico si prenda cura del suo assistito, ma invece questo si limita a curare, e quando non può prescrivere più nulla, ritiene di aver esaurito il suo compito, abbandonando il paziente al suo destino. Nello stesso testo, al capitolo dedicato al rapporto medico-paziente nella sclerosi multipla ho letto sorridendo: “il rapporto con il medico [in questo caso] acquista ben presto un carattere più stretto di quanto avvenga in altri casi, poiché le fasi della malattia, che consiste in genere in fasi d’intermittenza, fa sì che speranze e delusioni siano da lui [il medico] condivise con il malato e con i familiari. (…) La congiunzione con il medico di fiducia può consentire a quest’ultimo due operazioni: la prima, non favorire la tendenza all’immobilità del paziente, la seconda, istituire un rapporto psicologico partecipato che può avvalersi già di specialisti per una psicoterapia cognitivo-comportamentale o, più direttamente, una riabilitazione mediante psicoterapia di gruppo per contenere le tendenze all’isolamento e alla depressione”. Eppure ai disagi di tipo cognitivo e psichico non si fa ancora abbastanza attenzione.

Capire la differenza tra il prendersi cura ed il curare fu decisamente illuminante e la fase finale e più alta del mio percorso. In tutti quegli anni mi ero limitata a curarmi, ma non mi ero mai presa cura di me. Quando una serie di vicissitudini mi spinsero a cercare quel prendersi cura, nel fraintendimento dell’approccio che il mio medico aveva nei miei confronti, trovai delle porte chiuse. I medici sono stati formati per curare, ma sono totalmente incapaci di andare oltre, di comprendere che il paziente ha bisogno di molto di più. Sono stati programmati per mantenere sempre un distacco dalla vita intima del paziente che finisce in una totale incomprensione.

In più, il sistema sanitario non aiuta: quando devi visitare frettolosamente venti, trenta, quaranta pazienti al giorno, quale grado di confidenza e comprensione puoi avere? Al Centro ci sentiamo fortunati, perché per lo più ci sentiamo ascoltati, trattati come persone e non come numeri. Ma appena esci dal Centro, o appena il problema è più profondo e richiede un’attenzione particolare, ti scontri con una prassi a dir poco agghiacciante. Operai una scelta per la mia sopravvivenza: scomposi la realtà in teoria e praxis, ora continuando i miei studi e auspicando una rivoluzione, ora adeguandomi alla contingenza, godendo di quel surplus a spizzichi e bocconi che il mio medico riusciva a darmi, tornando a fare il paziente classico, ricordando qua e là, di essere una persona, particolarmente esigente aggiungerei.

“È soltanto nelle misteriose equazioni dell’amore, che si può trovare ogni ragione logica.”

John Nash

Per gestire una patologia cronica ci vuole soprattutto intelligenza, raziocinio. Una grande capacità organizzativa e di analisi è il contesto ideale dal quale muovere i mille fili della tua vita di malato. Non c’è spazio per i momenti di follia, per scelte scellerate e troppo emotive, tutto deve essere soppesato ed esaminato, non solo per quanto concerne il percorso terapeutico specifico della malattia, ma si tratta di un’analisi complessiva dello stile di vita, che attraversa la psiche e passa inevitabilmente per l’intero organismo.

Ci vuole inoltre molta capacità critica, di fronte ad una classe medica connivente con le politiche delle Case farmaceutiche, che ha paura di esporsi o scontrarsi con i baronati e con le lobbies che dominano il sistema sanitario pubblico. Noi pazienti cronici non abbiamo niente da perdere, dobbiamo essere quindi più coraggiosi: nessuno ha la bacchetta magica per curarci, i farmaci che facciamo sono così altamente nocivi, che per farci qualcosa di peggio dovrebbero iniettarci del cianuro.

Il medico vive costantemente un conflitto d’interessi, come ha più volte denunciato Gino Strada: da una parte è l’anello fondamentale che lega il paziente alla scienza medica ed alla sua imperante tecnologia, con grande responsabilità per la salute del suo assistito; dall’altra, viaggi di studio, congressi, ricerche e quant’altro sono spesso finanziati dalla Case farmaceutiche il cui obiettivo, è noto, non è la salute dell’umanità, piuttosto quella di lucrarci sopra. Non si tratta certo di enti di beneficenza, ma di multinazionali senza scrupoli, su cui la comunità scientifica internazionale vigila, strizzando qua e là l’occhiolino. Vi risparmio i numerosi esempi di frode al vaglio del sistema legale.

Se quell’anello iniziasse a spezzarsi, come ancora troppo pochi medici già fanno, e si rispolverasse un po’ di sana umanità e principio di servizio o missione ippocratica, forse le cose inizierebbero a cambiare.

Il paziente deve essere prima di tutto vigile. Questo non significa necessariamente che debba essere mortalmente diffidente. Non è questo il punto; ciò che deve fare è porsi il problema di come e quanto il percorso terapeutico che sta affrontando gioverà alla sua qualità di vita. Nella maggior parte dei casi ciò che ne conseguirà è che il farmaco non basta.

Non basta curarsi, bisogna prendersi cura di sé. Scrive Adams: “Il primo passo verso l’essere un paziente ideale è avere un sentimento che sia di compassione, d’amore e di gioia per se stessi. Il più grande dono che si possa portare a un’interazione in un processo di guarigione è il progredire verso uno stile di vita articolato e sano. Quanto prima possibile nella vostra vita scegliete il benessere: celebrate il miracolo della vita ogni singolo giorno, cercando dentro di voi a cosa credere incondizionatamente, create quante più amicizie possibili, coltivate il vostro senso del gioco e della creatività, fate esercizio fisico regolarmente e mangiate i cibi più sani che vi sia possibile. Per la maggior parte dei casi, cambiare e mantenere uno stile di vita sano sarà abbastanza per prevenire molte malattie e per mitigare quelle che vi colpiscono. Vivete la vita in modo così pieno da non avere rimpianti se doveste diventare disabili o seriamente malati. (…) Cercate di aver cura di quanti si prendono cura di voi, non importa come gli altri vi abbiano trattato in passato. Una volta che avete scelto una persona che vi aiuti, affrontate il rapporto pieni di fiducia, di entusiasmo, aperti e amichevoli. C’è molto dolore nell’arte del guarire. Molti guaritori si sentono esauriti, frustrati, arrabbiati e depressi. Quindi agite come se voleste arricchire la loro giornata, ricordate loro il perché hanno deciso di entrare in medicina la prima volta. Cercate di essere rilassati, rispettosi (non adoranti) e schietti. Cercate dei professionisti che amino guardarvi negli occhi, apprezzino il toccarsi e l’amicizia, che bisogna sperare si sviluppi attraverso l’empatia e la condivisione delle proprie vulnerabilità. Se un guaritore si comporta in un modo che vi disturba, esprimete le vostre preoccupazioni con gentilezza, ma con fermezza.”

Io ho scelto di credere incondizionatamente nell’amore, nella meraviglia quotidiana della vita, il sentimento che nutro verso i miei cari, compreso il mio medico: durante le fasi più devastanti della depressione, vivevo la frustrazione, frutto delle mie tendenze altruistiche, di non potermi prendere cura del mio medico, appunto un mio caro. Vivevo l’insoddisfazione di non poter dare quell’amore che donavo invece ai miei amici più sfortunati, perché io quelle persone le vivevo appieno e godevo della loro complessità umana, mentre i medici continuano a vivere di noi soltanto la nostra malattia, ed una volta appioppataci l’etichetta di pazienti, non c’è verso di togliercela. Non sanno quanto perdono di noi tutti. Feci molta tenerezza al mio psichiatra, io pensavo di essere folle, ma oggi so che sono solo più avanti degli altri.

E i pazienti? Spesso arrabbiati, nervosi, depressi, odiano il medico che gli ha fatto la diagnosi perché odiano la malattia, e del resto che rapporto hanno con il loro terapeuta se non uno scambio di informazioni gelide ed una ricetta bianca? Ci perdono molto anche loro. Eppure, come ha affermato uno dei maggiori studiosi ed esperti del rapporto medico-paziente, M. Balint, “il primo farmaco è il medico”.

È tutto così disumanizzante.

“Scopo del medico è di intrattenere il paziente mentre la malattia fa il suo corso”

Voltaire

Quando esci da una depressione non sei più la stessa persona di prima. La tua identità, una volta annientata, si ricostruisce secondo nuove categorie, lasciando soltanto alcuni fragili legami con la persona che eri. Ancora una volta il dolore è divenuto un momento di arricchimento, perché come vuole la tradizione popolare, ciò che non ti uccide ti rafforza.

Ho imparato soprattutto che la gestione della mia malattia non passa necessariamente attraverso un approccio farmacologico: non solo il farmaco non guarisce, ma spesso neppure allevia; il farmaco fallisce, il sentimento no, arriva ed è la forza che ti solleva dalla sofferenza, non chiedo la guarigione, chiedo l’attenzione, la comprensione, l’amore.

La mia speranza era tutta lì, in quell’umanesimo così profondo e pieno, e quando il mio medico disse che “l’unica possibilità di confronto che possiamo avere con i pazienti è dentro queste mura, dentro questo reparto”, io assistetti alla morte della Medicina, la morte di ogni speranza. Mi limitai ad un “non sono d’accordo”.

Ed allora, “di fronte alla scoperta di questa futura spoliazione, esistono solo due comportamenti possibili: o si decide di non legarsi agli esseri e alle cose, allo scopo di rendere meno dolorosa l’amputazione oppure, al contrario, si decide di amare ancora di più gli esseri e le cose, di mettercela tutta” (Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi). Io ho scelto la seconda possibilità, perché mi fa star bene, perché essa da sola costituisce davvero la mia salute.

Gli ospedali sono spesso l’oblio di ogni umanità; in ambulatorio, una dottoressa ci mise tre sedute prima di guardarmi in faccia, altrettante per iniziare ad ascoltarmi, per quanto sfuggente, e quando dimenticai la ricetta precedente mi disse: “non posso certo ricordarmi tutti i pazienti, anzi, a dire il vero non me ne ricordo nessuno”. Risi, ma non ridevo certo perché aveva destato una qualche simpatia, piuttosto risi della sua mediocrità, per quanto la cosa fosse comprensibile e reale. Rimane di me una grande disciplina interiore, un gran senso dell’ordine e della pulizia spirituale che si riflette nel quotidiano, la trasparenza, la fiducia nel prossimo, la generosità. Il resto è un cantiere aperto e lascio credere alla Scienza di essere abbastanza, perché del resto “non è compito della medicina sollevarci dal peso della sofferenza che deriva dal non saper dare un significato al decadimento del nostro corpo e alla sua morte finale. Non è compito della medicina dire quando la nostra vita non vale più la pena di essere vissuta e quando la fatica di vivere è troppo grande per essere sopportata” (D. Callahan). Non è compito dello Stato, del Diritto, non è compito di niente e di nessuno, se non di te stesso.

Stefania Calledda