Appunti sparsi di un migrante

Ho visto crescere il miglio

E germogliare il granturco,

oltre il campo di papaveri,

e una stazione

per treni che chiamano ogni distanza,

code al casello

e cavalcavia sulle amarezze,

capannoni, campanili,

casali e ville.

Se mi chiedi dov’è casa mia,

ti risponderò che è qui,

dove ho piantato la mia libertà,

e ora attendo il tempo

della mietitura.

Ho una valigia di nostalgie

e un biglietto aereo

per ciò che ho già conosciuto.

Ho troppi millenni di storia

alle spalle

per perdermi.

Stefania Calledda – Vicenza, giugno 2012

 

 

In ufficio sono l’unica sarda, per questo sono identificata come “la sarda”. I veneti hanno una buona stima dei sardi, che distinguono nettamente dai meridionali: a volte la sardità è considerata persino una qualità in più, e questo probabilmente ha una derivazione storica, per quella presenza della Brigata Sassari sull’Altipiano di Asiago (si legga Emilio Lussu, “Un anno sull’Altipiano”), in cui i sardi si sono distinti, pare, per valore e coraggio. I veneti, soprattutto i vicentini, non hanno dimenticato il sacrificio degli isolani e perciò questa riconoscenza rimane, nonostante non manchino battute su coloro “che parlano scuro”, i meridionali, subito specificando che noi sardi però siamo qualcosa d’altro.

Pausa Caffè

Pausa Caffè

Fuori da questi giochi del senso comune, se a qualcuno fosse sfuggita la mia provenienza, visto l’ormai accento annacquato e la mia poca loquacità, ho fatto in modo che persino il portachiavi della chiavetta della macchina del caffè testimoniasse senza dubbio la mia sardità, con i quattro mori a decorare la mia piccola isola in metallo.

Non sono, né voglio essere, una di quelle ridicole figure che intendono fare di loro stessi una macchietta, un sardo pellitta scivolato per caso in Veneto da chissà quale nuraghe, che non sa apprezzare la diversità, la ricchezza di ogni nuovo mondo, di ogni dimensione differente da scoprire, ancorandosi alle sue origini e rendendosi assolutamente fuori luogo.

Invece, si apprezza di me, soprattutto, la mia ferrea voglia d’integrazione, la mia curiosità, il mio interesse per le cose, le tradizioni, la lingua e il vivere quotidiano del luogo, nonostante la mia sia un’identità forte su cui so anche sorridere, come quando trovano difficile  pronunciare il mio cognome e dico allora: «tutto doppio, noi ci teniamo alle nostre doppie!».

All’inizio, sbagliavo i nomi dei luoghi, non sapendo che il veneto ha gli accenti arretrati, e mi prendevano in giro, ma non si rendevano conto che semplicemente davo un’accentazione italiana a parole che ne hanno una veneta. E alla fine soprassiedi a certi errori che fanno parte della parlata comune perché sono caratteristici come il baccalà.

Le interconnessioni tra lingua e dialetto, tra italiano e veneto, sono tali che è difficile per loro comprenderne i confini: questo accade perché non si tratta di una lingua definita come può essere il sardo, dove per la comprensione è necessaria la traduzione, per cui si diventa effettivamente bilingue. Il dialetto è così vivo in Veneto, che viene rivendicato come lingua, ma non mi hanno ancora convinto e anche tra gli studiosi il dibattito resta aperto.

Una volta, a cena, dei vicentini mi fecero notare che non avevo dei tratti tipicamente sardi, avendo una carnagione molto chiara, occhi e capelli altrettanto scandinavi. Uno dei commensali, che mi conosceva di più, replicò con fermezza che, in compenso, caratterialmente ero proprio sardissima. Mi si riconosce, spesso e volentieri, anche in terra berica, un piglio autoritario e tendenze carismatiche. Non mi difenderò da queste definizioni, perché fondamentalmente sono vere, ne sono consapevole. All’ultimo colloquio di lavoro mi chiesero un lato positivo e uno negativo: dissi che le colleghe mi hanno sempre definita una persona collaborativa, in compenso ritenevo di essere troppo intransigente. Mi dicono: «tu tagli i rapporti personali con il rasoio», io confermo «no, no, con l’accetta».

Mi si dipinge come una persona intelligente, seria, metodica e colta con l’immancabile “e anche una bella ragazza”, che non guasta. Insomma, a volte gli apprezzamenti positivi sono così tanti che per uscire dall’imbarazzo cerco sempre di cavarmela con qualche battuta.

Il mio più grande rammarico è che in Sardegna, invece, non ho avuto altrettanti riconoscimenti e ho faticato il doppio per avere la metà di ciò che riesco a costruire da questa parte del mare, e alla fine mi sono stancata di prendere sempre schiaffoni. Una persona molto attiva, che impone questo dinamismo sull’inerzia diffusa, è vissuta in Sardegna come una “rompi coglioni”. In Veneto, invece, ti adocchiano e ti mettono a disposizione tutto ciò che possono perché tu riesca a fare ancora di più, ti riconoscono il lavoro e la fatica e a tutto questo danno un prezzo e non si dimenticano. Del resto, diversamente non si spiegherebbe come questa palude sia diventata la motrice dell’economia nazionale.

Dovrei forse sfoderare la retorica sardo-nostalgica, ma non ci riesco, troppa è l’amarezza, troppa la delusione che mi devasta e ogni ritorno nell’isola è un travaglio.

S.C. – Montegalda, giugno 2012

Quando la Sardegna diventa la meta delle tue vacanze, smette di essere casa tua.

Ho finalmente capito quella malinconia che ha accompagnato il mio ritorno dall’isola, dopo le presentazioni del mio libro: il fatto è che per tutta la mia permanenza in terra sarda, c’era una sottile sensazione di essere fuori posto, una presa di distanza, un’estraneità imperante che rendeva più amare tutte le cose.

«È la storia di ogni migrante», mi spiega l’amico vicentino Nereo Turati, presidente dell’associazione Orizzonti Comuni, «Si è sempre stranieri in ogni parte. Dove si è nati, perché non è più casa tua, e così nella terra di accoglienza, perché anche quella non è casa tua e ci si sente sempre qualcosa d’altro».

Già, è davvero così, si è stranieri, eppure appartenenti a questa grande umanità diffusa, e tutti i nazionalismi, i regionalismi, i piccoli tentativi indipendentisti e autonomisti, mi appaiono nella loro inconciliabilità con il moto degli eventi, nella loro pochezza fattuale. Una cornucopia di ricchezze è quest’umanità diversificata e della tua esistenza ti resta la consapevolezza della sua assoluta inadeguatezza.

S.C. – Arzignano, giugno 2012

 

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