Il grande bluff (1)

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Silenzio. È il tempo in cui tacciono le magnifiche sorti e progressive della Scienza, gli splendidi afflati empatici dei camici bianchi a uso e consumo dei congressi, le grandi dissertazioni filosofiche sulla Medicina che cambia, la presa in carico, l’approccio multidisciplinare, la persona al centro e non la malattia e via dicendo tante altre amenità che riempiono il vuoto cosmico della realtà di fatto dell’assistenza sanitaria reale.

È un silenzio asfittico che penetra nell’ambulatorio, strisciando viscido nelle intercapedini e sotto il mio aggrottare le sopracciglia per il disgusto e infine sotto la scrivania, dietro la quale la neurologa si affanna a scrivere la sua sentenza, da stampare in duplice copia, per dare un senso a tutta quella gestualità ripetuta, quel rito pagano che si compie periodicamente per non restituirti nulla di più di una constatazione.

Ritualità che ha le sue regole non scritte, e in diciotto anni di malattia ho imparato ad assecondarne l’umana miseria, l’ego smisurato e permalosissimo, cosicché il mio scherno si palesa in una finzione scenica fatta di “lei sa meglio di me”, “lei m’insegna”, e altre forme dialettiche retoriche per illudere il mio interlocutore che davvero le sue parole siano verità rivelata, mentre ho già preso le mie decisioni.

Già, la verità si svuota in questo silenzio, mentre la dottoressa continua a sfogliare la cartella in cerca di qualcosa e non mi guarda mai negli occhi. Difficile sostenere lo sguardo di chi ha già deriso il re nudo, e ho capito cosa sta cercando, girando le pagine nervosamente: cerca le parole da dirmi nel vuoto fallimentare della ricerca scientifica, mancando in questo l’entusiasmo da parata dell’ultimo ritrovato che tante speranze ha acceso all’ultimo congresso internazionale. Le parole mancano allora, e in bocca c’è solo l’amaro sapore della sconfitta, come medico, e come essere umano, per non aver saputo nemmeno cosa dirmi.

Così, mentre la mia malattia diventa maggiorenne, mi scopro più fragile e più stanca. Disgustata soprattutto, e non c’è un modo migliore per definire la nausea che mi pervade in questi giorni di primavera che come al solito mi prostrano e mi tolgono ulteriormente autonomia, speranza, serenità.

In diciotto anni di malattia non mi era mai successo di recarmi d’urgenza in ospedale e sentirmi dire “non c’è posto, torna domani”, e incalzarli con “ma io sono qui perché sto male” e in tutta risposta sentire ancora “dovete telefonare prima”. Una visita veloce, il giorno dopo, un medico distratto, stanco, che a malapena mi ascolta, sorvolando con sufficienza tutto ciò che non è di sua stretta competenza. Che schifo, penso allora, mentre in due cercano di farmi sdraiare sul lettino.

Silenzio e cinque boli di solumedrol, deltacortene a scalare e io che mi lacero dentro, mentre lascio il braccio immobile perché  l’ago non vada fuori vena. Il silenzio inizia a riempirsi di storie, esperienze, vite vissute con la malattia, e come al solito sono la più informata, cito studi scientifici e leggi. Ho con me un libro e penso che ancora una volta rimarrà nella borsa. Eppure quel silenzio aleggia intorno a noi e me lo porto a casa, mi attraversa, mentre sto seduta in giardino a scrivere.

Dopo tanta chimica che cosa rimane, se non questo nulla, questo silenzio che riporta tutta la furia del vivere alla quiete dell’inevitabile, dell’impotenza. Tutto scorre, mentre tu ti fermi, diciotto anni di malattia, una guerra continua per essere, e poi ti accorgi che è tutto un grande bluff.

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