A un certo punto (Di speranza e altre questioni)

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Dal film Lo spazio bianco:
“Lei: «… e nel frattempo che cosa pensate di fare?»
Il medico: «Aspettare»
Lei: «Ah, beh insomma, quello diciamo che lo posso fare pure io»
Il medico: «Possiamo anche sperare signora»
Lei: «No guardi, lei faccia il suo lavoro e io faccio il mio e ai preti facciamo fare il loro»
Il medico: «Lei adesso ci odia, ma è normale»
Lei: «No, no guardi è diverso sa, voi dovete imparare a usare le parole che conoscete, odiare, sperare, ma che parole sono scusi, voi dovete imparare a usare il vostro di linguaggio, perché quando usate il vostro, e adesso scusi, mi dispiace che mi metto a piangere perché sembra che quello che dico è meno vero, ma quando voi usate il vostro linguaggio, che si chiama specialistico, non siete mai ridicoli»

 

rimbaud-vertigine-silenzioDeve essere accaduto che a un certo punto, un momento non definito, non troppo lontano, qualcosa è andato perduto, qualcosa si è spezzato, in me, nella mia propensione umanitaria di slancio generoso verso l’altrui vivere, sì, deve essere accaduto che questa mia inclinazione abbia perso di senso.

C’è che l’abitudine alla sofferenza si è trasformata in rigetto, quando mi angosciava l’idea di mettere piede in un ospedale, quando non sopportavo più il minimo dolore, quando anche gli aghi del prelievo diventavano intollerabili, quando non riuscivo più a sostenere alcuna terapia, fosse anche un integratore alimentare. C’è che avevo un dolore così intenso che m’incupiva, un male dentro, per quella privazione, quel suo silenzio, quel suo allontanamento che mi condannava, che finiva tutto per perdere d’importanza.

C’è che mi annoiavano, che non mi davano più nulla, mi svuotavano, bevendo alla fonte del mio entusiasmo, della mia energia, per quella sete che li aveva resi così inariditi, egocentrici ed egoisti, c’è che a un certo punto non ero più la loro oasi perché non avevo più entusiasmo, energia, speranza per loro.

Sì, mi annoiavano, per quei discorsi sempre uguali, quelle azioni sempre uguali, quei protocolli vestiti d’oggettività scientifica come leggi naturali, che subivano, per quell’inadeguatezza che li circondava e per la quale mi ero tanto battuta, per poi sentirmi dire “sì, ma dove posso fare l’operazione?” e capire allora che quella non era la mia battaglia, che il volontariato l’avevo scelto per quel brivido che l’esistenza incarnava nelle loro piaghe e io preferivo scomparire, non ero che un curioso osservatore. Ma le mie piaghe restavano lo stesso, e a un certo punto gli ho restituito il loro spazio, quello che avevo preferito donare ad altri emeriti sconosciuti, togliendolo ai miei cari a volte, a me.

Io non ho mai pianto in ambulatorio, di fronte a un medico. I medici sono preparati a dare spiegazioni organiche, fisiche, scientifiche, sono preparati a metterti un’etichetta con il nome della tua malattia, e così facendo pensano di poterti categorizzare, questo li rassicura. Ma i medici non sono preparati a consolarti, dunque perché piangere, disperarti. Ho accolto le comunicazioni più terribili guardandoli dritto negli occhi, abbastanza fredda da restare lucida, e ho visto sempre che avevano più paura di me: la vita degli altri pesa di più sulla coscienza. I miei compagni di flebo volevano essere consolati da me, ma a un certo punto non avevo più voglia di cercare parole di conforto, non ne erano rimaste perché nessuno le aveva avute per me.

Decisa a vivere senza speranza, vivere e basta, ho pensato che quel tempo sia semplicemente finito e che adesso ho bisogno di dedicarmi ad altro, alle mie cose, ai miei studi, alla costruzione del mio futuro, perché il futuro non necessariamente ha bisogno della speranza. Ma loro sì, ne hanno necessità, per questo non hanno più bisogno di me.

E poi quella contraddizione imbattibile, perché mi scrivono, mi telefonano: do risposte principalmente, quelle che i medici, le associazioni, i famigliari non possono, non sanno dare, le do ponendo altre domande, costringendoli a chiedersi quello che non si erano mai chiesti e non c’è cosa più terapeutica di aprire parentesi, chiudere pensieri con punti interrogativi, elaborare la vita incanalandola in percorsi intellegibili delineati, lasciando tre puntini di sospensione alla fine del discorso.

Di fronte alla mia birra media rossa, sedute sulla terrazza che mostra tutta Vicenza rifiorire, lei mi dice “tu non ti privi mai di nulla, vivi le cose appieno”. “Vedi”, continuo allora io, “la malattia è privazione e ti toglie già molte cose, ha senso rinunciare a delle altre? Io ho deciso che non mi toglierò nulla più di quanto la malattia non mi abbia già tolto”. E il concetto vale anche per lei che mi chiama dalla Sardegna e che vorrebbe fare un figlio, ma da neodiagnosticata oggi si chiede se sia il caso. Non ho dubbi: “Hai già una malattia incurabile, quanto dolore ancora vuoi aggiungere alla tua vita?”. È una domanda, non è una risposta, sei tu che mi ascolti che scegli come continuare.

È vero, non confido nella guarigione, nemmeno nella possibilità di porre limite al mio decadimento, ma è forse disperazione questa? Non è più disperato chi vive nell’irragionevole convinzione che in questo istante egli non stia davvero vivendo, ma che forse un giorno lo potrà fare? Io vivo adesso, non chiedetemi di sperare, chiedetemi piuttosto di rimediare alla perdita, alla frustrazione, al dolore: resta la tensione dell’irrazionale; non siamo sempre capaci di ricondurre tutto nelle trame dell’assolutamente logico. Accettiamo la debolezza della nostra disperazione, portandola addosso senza farci sopraffare. “Non avere paura”, le dico, “la malattia è una piccola, infinitesimale parte di un’esistenza meravigliosa, incredibile, entusiasmante”. Dove non possiamo camminare, possiamo galleggiare, possiamo volare, e percorrere strade, sospesi su altri mezzi, dove non possiamo vedere, possiamo ascoltare, toccare, dove non possiamo sentire, possiamo guardare e commuoverci della bellezza del mondo e così via. Possiamo allora sperare e non accorgerci che non abbiamo abbastanza tempo per goderci quello che abbiamo, aspirando a cose che non avremo mai.

La speranza è un lusso che la caducità della vita non permette.

“Per vivere appieno, così a fondo da sentire la vita pulsarti nei polsi anche quando tocchi la disperazione, la morte, il decadimento, bisogna avere tanto coraggio. Il coraggio di SENTIRE le cose, così tanto da chiuderti lo stomaco, così tanto da toglierti il respiro, così tanto da non dormire, così tanto da lasciarti esangue, senza lacrime e senza singhiozzi, senza speranza.”

S.C.

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