Fragile

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“L’uomo fa molto di più di ciò che può o deve sopportare. E così finisce col credere di poter sopportare qualunque cosa. E questo. E questo è il terribile. Che possa sopportare qualunque cosa.” William Faulkner, Luce d’agosto, 1932

 

Adoro questa pioggia d’ottobre che batte sulle finestre, questa tazza di tè che riscalda il pomeriggio, questo grigiore autunnale che spegne il caotico ritmo quotidiano e mi costringe a stare più raccolta, raggomitolata come la mia gatta pigra e sorniona, a dirsi qualche verità, ora che posso per un istante non fingere che non sia accaduto nulla, che abbia abbastanza forza per tutti e per tutto, che possa sopportare tutto.

Una lettera e un “come stai?”. Non lo so, vorrei avere un po’ di tempo per me, di silenzio, di solitudine, rimettere in ordine i pensieri, per quell’angoscia fredda, appesa alla gola. Non ho avuto ancora il tempo di dire: «Cazzo, sono malata, che ne sarà di me?». Perché vivo in mezzo a tanti, ci lavoro, ci parlo, ma nessuno lo sente il mio dolore, nessuno lo vede il terrore che mi annebbia lo sguardo, sono terrorizzata e non ho il tempo, il modo, l’orecchio giusto che lo accolga, per urlarlo e per chiedere aiuto.

Devo trovare un po’ di spazio per il mio dolore, sembrerà assurdo, ma sì, dov’è la scatola, il cassetto, il barattolo dove mettere questo dolore? Ho bisogno di lasciare un po’ di tempo e di spazio per il mio dolore. S.C

On and on the rain will fall
Like tears from a star like tears from a star
On and on the rain will say
How fragile we are how fragile we are
How fragile we are how fragile we are

 

“Scrivere è un po’ come fare i minatori di se stessi: si attinge a quello che si ha dentro, se si è sinceri non si bada al rischio di farsi crollare tutto addosso.” Due di due, Andrea De Carlo

 

È una mattina come tante, di quelle in cui la sveglia suona alle 6:30 e fatichi ad alzarti. Eppure la gatta lo sa che è ora e mi chiama, invitandomi a sgusciare via dalle lenzuola. Fuori la brina ha imbiancato le stoppie del campo di mais e il verde dell’erba pian piano ricopre le sterpaglie di un altro raccolto ormai andato, mentre banchi di nebbia avvolgono i lati della strada.

Accendo la macchina del caffè, riempio la ciotola di Nora delle sue crocchette, apparecchio per la colazione, come ogni giorno: sul tavolo ci sono, come di consueto, le tovagliette all’americana, le tazze per il cappuccino, il piatto con le due fette biscottate, velate di burro e marmellata, e il miele per me, i biscotti e lo zucchero di canna per lui. Verso il caffè e preparo la schiuma di latte.

Quando sono ormai a tavola, lui si alza e siede vicino a me, e intanto Nora continua a strofinarsi sulle gambe, cercando un po’ di coccole. Mentre raccolgo la schiuma del cappuccino con il cucchiaino, gli confesso: «Stanotte l’ho sognata, ho sognato ***». Lui mi guarda curioso e mi chiede: «Cioè?». «Niente di che …» rispondo io allora, «… parlavamo. La cosa più divertente, a ripensarci, è l’immagine che ne conservo, questo ciuffo, come se avesse appena fatto la piega dalla parrucchiera, lei che si porta le dita tra i capelli, questa voce profonda e dolce, pensa te». Matteo sorride e chiede: «Ma che vi siete dette?». Aggrotto la fronte, sorseggiando il cappuccino e poi dico: «Non lo so, non ricordo, è solo uno stupido sogno, non è importante cosa ci siamo dette», continuo, «Lei è un simbolo, è il mio inconscio che chiede aiuto, non è importante quello che ci siamo dette, so solo che mi sono svegliata più serena».

Matteo s’incupisce: «Sì, ma perché a lei?». Lo so bene perché, perché non mi fido di nessuno, perché per mostrarsi così fragili bisogna avere costruito qualcosa, bisogna affidarsi e non temere di apparire troppo deboli, perché è il nostro intimo che si tocca e siamo nudi, da quella parte della scrivania, e io non voglio, non posso essere così inerme con chiunque. «Perché lei è il MIO medico, o meglio, è stata e resta il MIO medico» dico accentuando quell’aggettivo possessivo come per sottolineare quel legame. «Non UN medico, ma IL medico, e gli altri … sono solo di passaggio» continuo allora per puntualizzare. L’ultimo sorso e poi: «Ho scritto una volta che la vita è come un viaggio in treno, dove vedi passare tanta gente, e tanta gente sale e scende per quel treno, persone che passano appunto, e invece ci sono persone che su quel treno finiscono per accompagnarti per un lungo tratto e ti lasciano sempre qualcosa. Lei è una di quelle e tutto il resto non ha importanza, che continuino a scannarsi, ci sono cose che significano di più di tutta questa sconfortante vicenda».

Finisco di prepararmi, infilo un’insalata per il pranzo nel sacchetto e raggiungo l’auto, anche oggi al lavoro. Come nelle storie più belle, quelle che raccontano di umane corrispondenze, quelle dei romanzi e dei film d’autore, resta soltanto un rimorso, amaro come chiedersi ancora “perché ci siamo fatte così male?”. S.C.

Nobody said it was easy,
It’s such a shame for us to part.
Nobody said it was easy,
No-one ever said it would be this hard,
Oh take me back to the start.
 
 

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