Il grande bluff (3)

Cercate di capirmi, io non posso dare un nome alla mia malattia, personificandola con epiteti quali “la maledetta”, “la nemica” o più volgarmente “la stronza”. Darebbe troppa dignità a un fenomeno patologico come tanti, così la inserisco nella mia vita con espressioni scientifiche e così  la vado a trattare, per quello che è, per mantenere la giusta distanza.

Difficile certo, mentre ti sconvolge la vita e ti ruba spazi sempre più ampi di indipendenza e autonomia, ma che ti porti via anche la Ragione no, questo non lo ammetto.

 

Ho sempre pensato di essere un pessimo paziente per il medico medio, imparando il linguaggio della sua scienza e studiando per comprendere meglio cosa mi accade e quali sono le possibilità del presente e del futuro per star meglio. E troppo ho capito e troppe le cose a cui sono venuta a conoscenza del mondo della ricerca e dell’assistenza sanitaria. Sono diventata il paziente di me stessa, cosa che accade quando hai una malattia cronica il cui andamento è così soggettivo che non esiste protocollo che tenga e sei tu che guidi il tuo neurologo e non viceversa, per tutto quello che non può sentire, per tutto quello che non può vedere,per tutto quello che non può conoscere.

Negli ultimi tempi invece, ho notato una certa soddisfazione nell’interlocutore con il camice bianco, il fatto di poter parlare con qualcuno quasi alla pari, qualcuno che dà un nome scientifico ai propri sintomi e che capisce come s’intende agire, che conosce i nomi dei farmaci e i dosaggi, che segue la lettura della risonanza magnetica e comprende le necessità terapeutiche e l’impossibilità di intervenire. Ascolto e immagazzino, sono una spugna che assorbe il metodo per sapermi guardare.

 

Non c’è dolore, non c’è disperazione, li accantono per i momenti di silenzio e solitudine, allora me li posso permettere e magari scrivere per rimetterli ancora in ordine, nella più razionale grammatica e sintassi.      

 

Di tutto questo grande bluff di entusiasmi da congressi e interviste esaltanti ed esaltate, che sciorinano statistiche e numeri di anonimi senza volto, resta, con un baratro profondo e irraggiungibile a separarli, la realtà clinica dei tanti incontri ospedalieri e la mia storia ventennale di insuccessi. “Vorrei proprio conoscere il mitico omino che risponde alle terapie, soprattutto sintomatologiche, quelli della percentuale che beneficiano di questo e di quello, perché io ho visto un altro film”, dissi una volta rispondendo al solito commento di una conoscente che aveva letto un articolo su qualche settimanale.

Ho spiegato meglio: “La verità è che la sclerosi multipla si definisce una malattia cronica progressivamente invalidante del sistema nervoso centrale di cui è sconosciuta la causa, pur esistendo varie ipotesi che restano ipotesi, di cui risulta ancora difficile la diagnosi e di cui anche il decorso e per lo più imprevedibile da soggetto a soggetto, e, come mi disse la mia neurologa, le terapie esistenti servono per prendere tempo in attesa di una vera soluzione, rallentando gli effetti della malattia, sempre che tu abbia la fortuna di rispondere a tali terapie positivamente. In altre parole, la strada per curare davvero questa malattia è ancora molto lunga”.

 

Attività infiammatoria, degenerazione, atrofia, per decenni e anche oggi la ricerca si focalizza sul primo aspetto e in modo mai risolutivo, con terapie sempre più aggressive sul sistema immunitario e sull’organismo. Di fatto, questa medicalizzazione che entra con violenza nel nostro quotidiano non porta mai a una risoluzione definitiva, ovvero alla guarigione. La malattia fa il suo corso, nonostante gli ostacoli che gli si frappongono.

Con questo deve essere chiaro che io ho sempre seguito quanto la scienza, e non i santoni del momento, ha potuto offrirmi in aiuto e a tutt’oggi mi limito a quanto il sistema sanitario nazionale e l’organizzazione mondiale della sanità prevedono. Scienza è anche l’idea che un sistema venoso efficiente possa migliorare la qualità di vita dei malati di sclerosi multipla. Gli effetti benefici dell’angioplastica dilatativa sulla mia sintomatologia sono stati di gran lunga superiori ai farmaci. Eppure, la neurologia si è affrettata a banalizzare la questione definendola “effetto placebo”, così che oggi non abbiamo una seria valutazione scientifica sui perché e i per come. Dall’altra, quando mi fu detto, di fronte ai pochi millimetri delle mie giugulari, riproviamo ad aprire in attesa dello stent venoso, io dissi “no grazie”, perché è un atteggiamento ascientifico in cui la cavia non intende collaborare.

 

Cercate di capirmi se, dopo l’ultima non ben identificata “ricaduta”, seduta sulla mia sedia a rotelle commisero, con una punta di sarcasmo, i famosi “passi da gigante della ricerca scientifica”, del resto, cosa posso raccontare a mia figlia?  

 

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