A forza di vento (Vicenza)

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IMG_7423Il testo che segue è stato elaborato da me per CasaLorca: si tratta di mie poesie, intervallate da stralci dei miei testi in prosa e alcuni inediti. Queste sono le parole che si sono aggiunte al dialogo con Alberto della Rovere, di CasaLorca, lette da Emiliano Gregori e Silvia Boeche. Buona lettura.

***

 
Sarà che non conosco altro dire
che questo sfiorire di parole,
io non sono capace
di scrivere altrimenti.

 

Da questa distanza, di tempo, di spazio, le cose accadute mi appaiono con nitidezza, definite, composte, e parrebbe un paradosso per una persona miope come me, se non fosse che la lontananza, per quella malinconia sospesa tra terra e mare, non è che un artificio letterario, mentirò così, che non c’è affanno nel ricordare, che è lieve questo sospiro del passato.

A guardarla da qui, la questione fu più sottile e non mi divincolai dal cappio in cui mi sporsi: per tanti anni non versai una lacrima che fosse una, non ebbi il tempo, né lo cercai, mi chiesero di resistere, lo feci.

Avevo imparato a vivere le cose con distacco, come fanno dall’altra parte della scrivania i nostri camici bianchi, ma a se stessi non si può mentire per troppo tempo. Dov’eri allora? Ciò che uccide non è l’azione brutale di chi odia, ma l’inerzia di chi ama. Dov’eri?

 

Scivolavo,
questo ricordo,
precipitando arrendevole
alle acque.
Non so che vento fosse,
quale tempesta,
quale onda,
ricordo tuttavia la schiuma
e infine la risacca
sulla riva,
cercandomi.
 
Ero il ciocco di legno
alla deriva,
tenuta a galla
per chissà quale legge naturale.
Aspettavo
s’abbassasse la marea
soltanto
per respirare ancora.
 
Dov’eri?

 

Cos’è un naufragio, se non giungere in una terra sconosciuta, popolata da sconosciuti, che usano suoni e linguaggi diversi per comunicare, odori, sapori, modi di dire e fare sconosciuti, per scoprire che in realtà sei tu l’unica e vera sconosciuta? Nella vita, a volte, si è naufraghi per scelta, come lo sono stata io, per ricominciare da capo, per darsi un’opportunità, per far finta di dimenticare, per levarsi gli abiti che avevi sempre vestito e nudi, provare a mettere qualcosa di nuovo.

 
D’ombra e di marea ad un tempo,
fitto groviglio di sterpi
e radici inermi
e nodose scorze d’alberi morti
e ancora tinte crepuscolari.
 
Non ho voglia di
cercarTi tra le dune,
hai ascoltato il mio grido leggendomi,
Ti ho chiamato con i silenzi
delle virgole e dei punti.
 
Non Ti chiedo che di accogliermi
nei moti impercettibili
di questo mio esausto vespro.

 

Io vengo da una terra di vento, di nuvole che rincorrono transumanze, di olivastri e sughere prostrate alle fiamme. C’è nel sangue un sibilo di Maestrale, un gorgoglio di scogli, e forse è per questo soffio continuo che mi agita, che la mia vita è una sopravvivenza a metà, tra inquietudine e tenacia.

 

È
la corda di un violino
che non suona,
una lenza
che non sa nutrirti,
la punta di un ago
che hai dimenticato,
la carta di una lettera
che non spedirai mai,
la lama sottile di un coltello
che non cercavi:
non ti ucciderà,
sanguinerai appena.
 

Ci sono partenze che sono necessarie, immancabili trapassi, vele che si gonfiano e attendono di salpare per andare lontano, andare. Ci sono naufragi che annegano e naufragi che salvano, ed è forse per questo mio naufragio della coscienza che sono finita dall’altra parte del Tirreno.

Una valigia di ricordi, disillusioni, amarezze come lame conficcate nel costato, incredibili ed emozionanti squarci di vita, irripetibili istanti. Che cosa lascio dunque, che cosa vi rimane di me, ora che ho attraversato il mare e che sono abbastanza lontana perché non sentiate il peso del mio indice perentorio della mia cocente indignazione? Vi darete da soli l’assoluzione, vi sentirete sollevati, ma c’è a volte più amore in chi punisce, perché l’amore è così, assolutamente incomprensibile, assolutamente lapidario, senza misura.

 

E ora che ho lasciato le mie valigie sull’uscio,
mi riesce ancora così triste
la tua incapacità d’amarmi,
la tua fuga da ogni
sentimento reale,
la tua noncuranza.
 
Sul fondo del dirupo
la tua assenza
mi lacerava e ancora mi ferisce.
 
Che cosa ti rimarrà di me,
se non una corona di spine?

 

Quando qualcosa si rompe, cerchiamo di ricomporla raccogliendone i pezzi e provando a ridarle una forma. Ma l’oggetto non sarà più come prima, l’accomodiamo alla bell’e meglio, ma qualche frammento finirà per scomparire sotto il frigorifero magari, qualcun altro sarà irrecuperabile, e così riprenderemo ad usarlo, pur sbeccato, pur ammaccato.

Se si rompe la nostra coscienza, il nostro mondo interiore, accade lo stesso, proviamo a ricostruirci, ma niente sarà più come prima.

 

Come il fiume
riprende il suo letto
e punisce l’arroganza dell’umano,
impietoso moto d’acque,
e atterrisce, devasta e condanna,
cercando la sua foce
sicché mai fu più doloroso
il suo sbocco al mare,
percorrendo di morte e distruzione
la pianura,
così io mi riprendo la mia vita,
impetuosa vitalità
che squarcia l’esistente di eventi.

 

Ho dovuto ricominciare dalle piccole cose, inutili quando pensavo di essere invincibile. Ho iniziato a credere che la mia era soltanto una grande vanità e l’umana condizione che l’esistenza ci ha destinato ha finito per mostrarmi la nostra infinita pochezza, la mia fallimentare presunzione. Per questo ogni cosa ha acquistato il suo valore.

 
Colma di meraviglia,
m’estasiavo del piccolo, dell’insignificante,
dell’assolutamente semplice, del futile
esserci.
 

Sarebbe stato tutto più semplice se fossi stata in grado di dimenticare: ho una buona memoria purtroppo, tremenda come certe malattie da cui non si guarisce mai. E poi, vale la pena dimenticare? Non siamo forse questo cumulo di esperienze che aggiungono pezzi al nostro puzzle, non siamo chiamati a essere prima di tutto testimonianza? È questo il nostro fardello?

Se la nave affonda, non ci resta che il suo relitto ad attestare la nostra sopravvivenza.

 

Il ricordo
è un relitto in fondo al mare.
La ruggine a poco a poco
ha invaso ogni cosa
e il mare fagocita di continuo
la sua presenza lieve
sul fondale.
 
La dimenticanza è così,
ingorda e silenziosa,
tenace e solerte
moto verso un vuoto,
che non tarda a riempirsi di nuovo.
 

Ti aspettavo vita, eri dietro la folla dei buoni propositi, tra le promesse e le speranze che la scienza elargiva per divincolarsi dalla sua impotenza, eri oppressa, soggiogata, mortificata, forse anche da me stessa, perché ancora i miei sensi non ti avevano avvertito.

 

Le tende respirano nuove fragranze,
sento il gusto del pane fresco nelle narici
e l’aroma del caffè
e suggestioni di movimento.
 
Mastico nuovi percorsi,
li immagino nelle circonferenze del cucchiaino,
posso digerire il futuro ora,
mentre affoga nella mia tazza.

 

La speranza è una fiammella timida e delicata, a forza di vento si spegne, ma arrendersi è un’altra cosa, impari a costruire nuovi modi di guardare alla tua esistenza, all’esistenza, impari a cercare strategie diverse perché la scienza non è mai abbastanza e da sempre ho cercato di riprendermi la dimensione umana delle cose, forse perché in quella scienza non ho mai creduto.

Io non ho mai pianto in ambulatorio, di fronte a un medico. I medici sono preparati a dare spiegazioni organiche, fisiche, scientifiche, sono preparati a metterti un’etichetta con il nome della tua malattia, e così facendo pensano di poterti categorizzare, questo li rassicura. Ma i medici non sono preparati a consolarti, dunque perché piangere, disperarti. Ho accolto le comunicazioni più terribili guardandoli dritto negli occhi, abbastanza fredda da restare lucida, e ho visto sempre che avevano più paura di me: la vita degli altri pesa di più sulla coscienza. I miei compagni di flebo volevano essere consolati da me, ma a un certo punto non avevo più voglia di cercare parole di conforto, non ne erano rimaste, perché nessuno le aveva avute per me.

Decisa a vivere senza speranza, vivere e basta, ho pensato che quel tempo sia semplicemente finito e che adesso ho bisogno di dedicarmi ad altro, alle mie cose, ai miei studi, alla costruzione del mio futuro, perché il futuro non necessariamente ha bisogno della speranza. Ma loro sì, ne hanno necessità, per questo non hanno più bisogno di me.

 

Non guardarmi
con quegli occhi assetati
che supplicano,
con quell’arsura sulle labbra
che tra le crepe sanguina:
non ho nulla da bere per te,
nessuna pozione, nessun intruglio mistificatore,
nulla da darti, nessuna finzione statistica,
né vanità di scienza per alleviare la tua sete.
 
Ho solo la Verità,
così spietata, così inutile,
ho solo la Ragione,
così inadeguata, così inconcludente.

 

Diranno di me che ho perso la ragione, che il dolore mi ha privato di ogni lucidità, diranno e l’hanno detto già. Beati coloro che hanno la verità, a me sarebbe bastato il verosimile, che hanno la sicurezza e non hanno bisogno di toccare le cose perché siano reali, che non hanno bisogno di vedere oltre la trama delle certezze labili di formule matematiche e statistiche. Beati loro, così pieni di convinzioni, io ho avuto bisogno del dubbio per riprendermi la mia vita.

 

Rendimi, vita mia,
quella forza che non ha bisogno del coraggio,
quella sicurezza che non ha bisogno dell’amore
e cammina da sola, per le strade del mondo,
quella caparbietà che non ha paura,
quella supponenza con il sopracciglio alzato per lo sdegno,
l’arroganza della consapevolezza:
sono questa falcata prepotente,
questo passo altero e questo pensiero
che morde e taglia,
questo dolore lontano dagli occhi e asciutto,
l’imbarazzo che vela la corazza,
questo mio agire convulso e disperato.
 
Rendimi, vita mia,
questa perduta identità,
che tra i sassi del selciato
è scivolata via e l’ho chiamata
e richiamata, gridando ai lati della strada.
Rendimi, vita mia,
la fiamma che accende l’indignazione,
la pianta che nutre la mia rabbia,
rendimi questa mia identità liberata
che spalanca le persiane
a questo albeggiare degli eventi.

 

Per CasaLorca, Stefania Calledda, 2013

 

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