Io non ho paura (1)

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“Per ciò che riguarda la psiche, non posso dire molto di preciso: è certo che per molti mesi sono vissuto senza alcuna prospettiva, dato che non ero curato e non vedevo una qualsiasi via d’uscita dal logorio fisico che mi consumava. Non posso dire che questo stato d’animo sia cessato, che cioè mi sia persuaso di non essere più in condizioni di estrema precarietà, tuttavia mi pare di poter dire che questo stato d’animo non è ossessionante come nel passato. D’altronde esso non può cessare con uno sforzo di volontà; intanto dovrei essere in grado di fare questo sforzo, o di sforzarmi di sforzarmi, o di sforzarmi di sforzarmi di sforzarmi ecc.” Antonio Gramsci, Lettere dal Carcere

 

60793_490305060992913_678117969_nDopo certe lettere, certe telefonate, certe chiacchiere e certi eventi, in apparenza innocui e insignificanti, la mia vita mi passa davanti agli occhi come un treno in corsa e a volte, certe immagini si fermano più definite, più nitide. Come adesso, che ho appena finito di bere il mio tè, rigorosamente sfuso, comprato in centro, in un vicolo adiacente Piazza dei Signori: sul tavolo, ho la scatola di latta con i biscotti dell’antica pasticceria veneziana, e la mia “storica” tazza di Snoopy, che da Nùoro è venuta a Cagliari per riscaldare le serate di studio, quando facevo l’Università, o le lunghe chiacchierate con le amiche, per poi attraversare addirittura il mare, perché la verità è che sono una gran sentimentale, e non potevo separarmene.

A vederle da qui, le cose passate hanno un altro sapore, potrei persino dire che la distanza è molto utile affinché si comprendano meglio.

Lei mi chiama per dirmi che con questa maledetta malattia no ce la fa, non riesce a terminare gli studi, è stanca, troppo stanca, e l’altra mi dice che non riesce a lavorare, è tutto troppo faticoso e i famaci poi, sono più invalidanti della malattia stessa, mi dice, che la vita è finita, sostiene lui, che non riesce più a fare questo o quello, che sviene sul posto di lavoro, che ha attacchi di panico continui dal momento della diagnosi, che non esce più di casa da quando sta sulla sedia a rotelle perché, solo a guardarsi sulle vetrine dei negozi, si fa schifo, non è lei, non si riconosce ecc.

Ognuna di queste storie è un pezzo di me, la fatica, l’ansia, il sacrificio quotidiano, il disgusto per quel corpo che non riconosci. Eppure, mi sono laureata, prima alla triennale e poi alla specialistica, ho pubblicato, scritto, studiato, letto, sono stata partecipe dell’evolversi dei tempi, la politica, il volontariato, lo sono stata e lo sono ancora, anche se il lavoro mi toglie il tempo che preferirei dedicare maggiormente a queste attività, e oggi ho un’occupazione, a trent’anni, in piena crisi, diversamente da molti miei coetanei, ho un lavoro, una stabilità, la stima dei colleghi e dei superiori, dei nuovi amici e conoscenti, il riconoscimento di coloro che non mi hanno seguito, ma che mi ammirano, perlomeno per il coraggio.

Mi ricordo studiare con un ago infilato in vena, dare gli esami gonfia e strafatta dal cortisone, mi ricordo le imprecazioni per quella Facoltà costruita su un’improponibile salita e scale, scale, spazi inconciliabili con la mia disabilità. Non un solo giorno la mia malattia è entrata in quelle aule per cercare comprensione, aiuto, non una sola volta: è valsa soltanto la mia intelligenza, la mia dialettica, la mia fame di conoscenza. Persino nel discutere la tesi c’era solo un’incertezza, ma nel passo, poiché mi trascinavo, nascondendolo con dignità.

Ho vinto. Si dice che la fortuna aiuti gli audaci, è andata così, per molti versi sono stata fortunata, perché ho osato, perché non ho avuto paura, perché ho scelto di vivere. Sì, è stato faticoso, a volte doloroso, è stata una lotta che ancora oggi continua.

A volte la mia personalità è così complessa che ho bisogno di un evento particolare che la faccia affiorare con chiarezza, come quando una persona mi parlava del suo disturbo di sensibilità alle estremità, sconfortandosi perché i medici gli avevano detto chiaramente che non avrebbe più recuperato quella percezione, quel movimento. Io mi sono arrabbiata, ho detto: “Immagino quindi che non ti abbiano dato un piano riabilitativo, perché in questa stupida Medicina a compartimenti stagni l’oncologo non parla con il neurologo, il neurologo non parla con il fisiatra ecc. Un approccio perdente perché questa gente che sentenzia è perdente, nessun medico può con certezza sapere come si evolveranno le cose, ma adesso spetta a te, che non sarai più quello di prima, certo, non recupererai tutto, ma sei tu che devi tenere sveglio il tuo sistema nervoso, sei tu che scegli, perché è tua la volontà, e allora con una riabilitazione continuata e seria, tu ricorderai al tuo organismo cosa può fare e questo farà di te un vincente, se non ci provi, hai già perso”. Mi rispose: “Tu sei una combattente”.

Questa sono io, penso, non ci sono verdetti, siamo sempre di fronte a delle scelte. Io non ho recuperato granché, i miei piedi sono sempre così lontani, non saprei bene dove collocarli, dove sono? Però ho modificato la mia auto e ho i comandi manuali: vado dove voglio, attraverso la provincia di Vicenza verso Padova, ogni giorno. Ho scritto: “Diranno di me che ho perso la ragione, che il dolore mi ha privato di ogni lucidità, diranno e l’hanno detto già. Beati coloro che hanno la verità, a me sarebbe bastato il verosimile, che hanno la sicurezza e non hanno bisogno di toccare le cose perché siano reali, che non hanno bisogno di vedere oltre la trama delle certezze labili di formule matematiche e statistiche. Beati loro, così pieni di convinzioni, io ho avuto bisogno del dubbio per riprendermi la mia vita”.

Ho vinto. Io non ho paura della vita che mi viene addosso. S.C.

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