Da Vicenza a Trento (parte seconda)

Sui monti di Trento (in prosa)

9 aprile 2012

 

Se oltrepassata l’A31, meglio nota come Valdastico, risalissi la montagna, percorrendo la Valsugana, troveresti un fresco torrente tra i sassi bianchi, ad accompagnare il tuo sguardo straniero che tra i verdi prati e i boschi si perde.

Così, tra borghi dai tetti spioventi e balconcini di legno, pietra e un vago sapore austriaco, tornanti e curve, tutto sommato piacevoli e dolci alla guida laddove la mano dell’uomo ha lasciato ben poco di autenticamente selvaggio, potresti, con uno sforzo pindarico della memoria, incontrare la Storia di questa nazione, che non conosce riconoscenza, vaneggia indipendentismi senza radici e piange identità indefinite.

È qui che giovani uomini imbracciavano i fucili e dietro i silenzi dell’altopiano guardavano le truppe nemiche avanzare, è tra questi sentieri di foglie e pietrisco che le ragazze salivano con le loro biciclette e i loro messaggi, riscaldati dal tepore del loro seno, che il reggipetto costringeva, stretto, stretto al costato. Li chiavano “banditi”, ma mai ci fu bandito più infame di chi li costrinse alla macchia, ladro e assassino, chi fu appeso senza pietà per i piedi e mostrato come una volpe al gancio dopo la caccia.

Lungo i valichi puoi ancora sentire la marcia funesta di secoli di conquista, che parla lingua tedesca e mostra le medaglie della rapina. In questa terra che dimentica, anche da qui si levarono alte le speranze d’indipendenza dalla potenza straniera, echi risorgimentali e drappi tricolore, perché le differenze non pesavano quanto lo stivale prepotente del dominatore.

Anch’io sono una montanara, riconosco l’odore del bosco, il crepitare scintillante del fuoco nel camino e quel profumo di resina, l’aroma dei funghi e millenni di venti e pioggia, di neve e grandine a scavare la roccia. Il mare non mi è mai appartenuto. Mai.

E qui, lontano e pur così a me vicino, un ruggito di fiume squarcia la terra: solo l’Adige sa quanto sangue lungo il suo cammino, quanto veleno, quanto sfregio, quanta infamia, quest’umanità ha saputo infliggere.

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Io vengo dalla montagna

Ritorno ad Aritzo, Stefania Calledda (giugno 2007)

 

Io vengo dalla montagna

con il passo pesante

delle mulattiere,

delle pietraie argentate

su cui ho poggiato

le mie mani crude come

lo sguardo dei montanari.

Non è difficile trovare

tra gli occhi indiscreti

iridi dal gelido azzurro,

tratti come incisioni

di antiche stirpi per sempre

assediate dal silenzio della neve.

Io vengo da questi

tetti spioventi che salgono,

opponendosi alla roccia,

questo dorso di scisto,

questo freddo di quiete infeconda

e la vita sotto la pace

che palpita di fumo, dai camini,

e sa di castagne e di legna.

Io vengo dalla montagna

e porto il dolce profumo del miele,

ma ho l’animo sicuro e impietoso

come la mano dei torronai.

Ecco da dove io vengo,

da questa storia di povera gente

e di materna lingua dall’arcaica

origine, stesa sui versi di una poesia

consegnata ad uno spietato canto

di un malinconico viaggiatore,

con il carro, sino in pianura.

 

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