La dimensione umana

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Verona/Cagliari – Cagliari/Verona

Questa notte, Le Onde (Ludovico Einaudi)


Cagliari, è una notte di fine settembre, sono quasi le tre e noi sostiamo nella sua macchina, sotto il terrazzo di casa mia. Ci fermiamo a chiacchierare un po’, prima di salutarci.

Lei: «Beh, com’è questo ritorno a Cagliari? Ormai mancavi da un anno o quasi…».

Io: «Mah, in un anno le cose non cambiano, mi pare tutto esattamente come l’ho lasciato, sarà poi per il mio piglio austroungarico, continuo a non sopportare tutto questo caos, disordine, la guida spericolata dei cagliaritani».

Lei: «Sì, ma come ti senti, sei ancora arrabbiata?».

Io sorrido e dico: «Arrabbiata… non sono mai stata arrabbiata, o meglio, la rabbia mi serve per reagire alle cose, mi dà la forza per reagire al dispiacere, alla delusione, al dolore. È una finzione, una messa in scena… dietro c’è tanta tristezza. Il fatto è che continuo a fare il gravissimo errore di pretendere troppo dalle persone che mi sono più care, quindi stai attenta!», aggiungo infine con un po’ di autoironia.

«Lo so!» continua lei con fermezza, «Stefania, tu chiedi delle cose che ti possono dare solo delle persone speciali e ce ne saranno, che ne so, una su un milione, e i medici sono come tutte le altre persone per cui…».

Io: «Beh oddio, non è che pretenda da tutti i camici bianchi che mi passano davanti, a dir la verità sono stata più esigente solo con una persona perché la ritenevo all’altezza, non so, forse mi sbagliavo».

Lei: «Sai, è difficile comprendere di cosa hai bisogno, poi ora sono lontana, è pure peggio, una volta mi hai detto che ti sentivi inadeguata rispetto alla mia situazione, ma sono io che mi sento inadeguata, che non so cosa fare mentre tu vivi questa malattia». Mentre termina la frase si asciuga le lacrime, le porta via con le dita, appena sotto ciglia, e la voce si fa più incerta, tra un singhiozzo e l’altro.

Continuo a fissare con insistenza il cruscotto dell’auto, so che se incrociassi il suo sguardo scoppierei in lacrime anch’io, fingo il mio solito austero atteggiamento corazzato, ma anche la mia voce si fa sommessa: «Di materiale puoi fare ovviamente poco, sai com’è, c’è il mare in mezzo, quello che puoi fare è esserci, semplicemente esserci, perché di fronte alla morte come alla malattia ognuno è solo, è la solitudine la cosa più lacerante. La possibilità di poter contare su qualcuno è l’unica cosa che allevia questa solitudine». Come sono diventata saggia dopo undici anni di malattia, penso allora, e continuo: «Ecco, è questo che queste teste di cazzo con il camice non hanno ancora capito, nessuno pretende che ci guariscano, chiedi soltanto che ci siano».

Lei: «Sei ancora ferita, lo sento».

Io: «Non ho ancora digerito quella frase, “se non ti fidi, io non lego nessuno”, a me, a me! Io non solo ti ho dato fiducia, ma anche stima, amore, ma come si fa, che aridità».

Lei: «Quando i medici si sentono sotto pressione, utilizzano il solito metodo, il paziente ha paura di non essere curato e torna al suo stato remissivo».

Io: «Ma con me non funziona, mi pare che non ci possa guarire nessuno per cui, se spezzi il legame sei alla stregua di un neurologo qualsiasi, uno vale l’altro a quel punto, se la mettiamo sui rapporti di forza io sono sempre la più forte perché se mi sfidi io la sfida la raccolgo e per vivere con questa malattia devi aver sviluppato delle belle palle quadre, non ho paura di nessuno, anche se dovesse chiamarsi Gesù Cristo».

Lei: «La devi superare questa cosa…».

Io: «Ma no, sono serena, ho tanti bei ricordi, in fondo penso di aver imparato molte cose da lei, spero soltanto che abbia imparato qualcosa da me».

A quel punto un rispettoso silenzio pervade l’abitacolo, guardo l’orologio, è tardi. Irrompo con un commento scherzoso per smorzare quel momento così carico: «ma sarà il vino o l’orario notturno che ci fa straparlare di queste cose?»

Lei: «Sai come si dice, in vino veritas».

Io: «Già, andiamocene a dormire va».

Mentre tento di levarmi gli ultimi residui di mascara, allo specchio riconosco negli occhi i segni di un pianto mancato, lo sforzo di apparire ancora una volta inattaccabile; mi resta un senso profondo di condivisione, la percezione di quella dimensione umana che si è sprigionata così violenta e così tenera nei gesti, più che nelle parole. E noi, così lontane, così vicine.

S.C.

 

03-Lontano, Le Onde (Ludovico Einaudi)

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